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Dizionario minimo: Cina, capitalismo, libertà

di Alessandro De Nicola

Difficile che chi non abbia almeno un po’ di capelli grigi sappia chi è Herbert Marcuse, filosofo e sociologo tedesco-americano, marxista eretico ed eroe dei movimenti studenteschi del ’68. In uno dei suoi libri più famosi, “L’uomo a una dimensione”, Marcuse ipotizzava che la tollerante non-democrazia capitalistica aveva ridotto i cittadini a uomini ad una dimensione, quella del consumatore compulsivo. Si era dunque in presenza di una società totalitaria “soft” che avrebbe potuto essere sconfitta solo con l’immaginazione al potere e i guerriglieri delle lotte di liberazione. Ovviamente Marcuse era un sognatore di talento, ma la somiglianza tra la sua teoria e quello che la dirigenza comunista cinese sembra progettare per il proprio paese è sorprendente. Da Deng in poi, infatti, pur con diverse sfumature (e l’eccezione dello sfortunato riformista Zhao Ziyang, esautorato dopo la repressione di Piazza Tienamen nel 1989), l’establishment di Pechino sembra aver mirato, come avrebbe chiosato il sociologo tedesco, a ridurre la popolazione cinese al perseguimento degli obiettivi primordiali della produzione e del consumo permettendo così di mantenere un conformismo politico gestito dal Partito Comunista.
Purtroppo, come capita ai marxisti, né Marcuse, né l’oligarchia cinese hanno capito un granché delle società liberali capitaliste e le attuali difficoltà della Borsa di Shanghai potrebbero essere un segnale d’allarme da non sottovalutare.
È stato infatti pubblicato qualche giorno fa l’Index of Human Freedom, uno studio sullo stato della libertà nel mondo curato dal Fraser Institute Canadese, dalla Fondazione Neumann tedesca e dal Cato Institute americano. Si tratta di una ricerca molto accurata che, diversamente da altri indici settoriali, prende in considerazione l’intero spettro di quelle che Isaiah Berlin chiamò “libertà negative” (la libertà delle persone da interferenze, soprattutto dello Stato, su cosa esse desiderano dire, fare, intraprendere, pensare senza infrangere il relativo diritto altrui).
La libertà economica é un aspetto sicuramente molto importante ma non l’unico. Ad esempio, la sicurezza personale e il governo della legge sono precondizioni senza le quali non è possibile godere i propri diritti. La libertà a tutto tondo è costituita, tra l’altro, dalla possibilità di vivere in pace le proprie preferenze sessuali, di scegliere i rapporti familiari o di lasciare i propri beni a chi si desidera (ed in molti paesi del mondo sono le donne a soffrire pesanti limitazioni), la libertà di associarsi senza interferenze o controlli del potere politico, di esprimere il proprio credo religioso e il proprio pensiero, di informarsi anche su mass media esteri, di fare informazione senza rischiare la vita o censure, di poter utilizzare internet senza controlli o restrizioni governativi, di muoversi liberamente all’interno del proprio paese e all’estero e di essere sottoposto ad un equo processo celebrato da una magistratura indipendente.
Ebbene, se andiamo a controllare dove si pone la Cina in questa speciale classifica di libertà, la troviamo ad un poco onorevole 132mo posto su 152, con una media di 5.86 su 10, raggiunta soprattutto grazie al relativo grado di libertà economica (a 6.39), laddove per i diritti civili e politici il risultato sarebbe vergognoso (5.33, 135ma posizione).
L’invidiabile crescita di ricchezza di cui ha potuto godere l’Impero Celeste negli ultimi 30 anni si è verificata in gran parte grazie al miglioramento del sistema educativo e alla decisa liberalizzazione dei meccanismi economici che partivano da infrastrutture primordiali e forme parossistiche di collettivismo che ponevano il paese in una posizione persino peggiore di quella del Venezuela, oggi il peggiore tra le 152 economie esaminate.
Ad un certo punto, tuttavia, questo non basta più. Quando non ci si può fidare più dei dati economici forniti dal governo perché non ci sono né autorità né stampa indipendenti (voto 0,3 sulla regolamentazione dei mass media) che possano controllarli, questo ha riflessi negativi sulla fiducia degli investitori. Se non c'è certezza di ottenere un giusto processo (voto 4,0) o di essere protetti dalle interferenze arbitrarie della burocrazia o dalle violazioni al diritto di proprietà (voto 4.1), gli imprenditori stranieri cominceranno ad investire sempre meno appena aumenta il costo del lavoro. Per quanto saggia sia una dirigenza, l’assenza di un vivace dibattito interno, la discrezionalità dei regolatori, l’opacità del processo decisionale bloccano l’economia.
D’altronde è difficile pensare ad una coincidenza quando il 25% delle nazioni più libere hanno un reddito medio pro-capite di 30.006 $, mentre nel secondo quartile è di 6.393 $, nel terzo di 5.416 $ e nell’ultimo di appena 2.615 $.
Perciò è certamente possibile che la tempesta scatenatasi in Cina possa nel breve periodo essere rimediata e ridursi ad un salutare aggiustamento, ma se il grande paese orientale vorrà continuare nel suo percorso di sviluppo dovrà cambiare profondamente, portando un po’ di quell’immaginazione al potere che avrebbe fatto contento Marcuse. La libertà, economica, politica o civile che sia, paga sempre.

PS: L’Italia si piazza al 34mo posto, senza infamia e senza lode.

Alessandro De Nicola
adenicola@adamsmith.it
Twitter @aledenicola


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