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Come pagare il conto delle pensioni anticipate

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di Alessandro De Nicola

"Non ci si può permettere di sprecare una seria crisi... è un'opportunità di fare cose che non si pensava di poter fare prima". La frase del sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, già capo di Gabinetto di Obama, sembra aver ispirato il premier italiano. Infatti, dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato l’incostituzionalità del decreto Fornero sul blocco dell’indicizzazione delle pensioni, Matteo Renzi, nel presentare il provvedimento di restituzione parziale di quanto era stato negato ai pensionati che ricevevano un trattamento almeno superiore a tre volte l’assegno minimo, ha colto l’occasione per auspicare una riforma della legge Fornero.
La metafora scelta questa volta non è stata particolarmente ganza. La nonnina di 62 anni che vuol godersi il nipotino, voleva richiamare forse il libro “Cuore”, ma in molti hanno trovato l’esempio sessista, antiquato e disattento rispetto all’evoluzione dei costumi, della salute, della vita media delle persone e alla preoccupante sotto rappresentazione delle donne nel mercato del lavoro.
Sia come sia, tra le righe pare di capire che il governo potrebbe muoversi nella direzione indicata dal presidente dell’INPS, Boeri, concedendo una maggior flessibilità in uscita in cambio di una pensione più bassa: in altre parole, se si smette di lavorare prima, si prendono meno soldi.
Una proposta di questo genere a prima vista non sembra irragionevole: tutto sommato si concederebbe una maggior libertà ai lavoratori senza oneri aggiuntivi per le casse dell’INPS, sempre ammesso che le detrazioni all’assegno pensionistico fossero tali da realmente coprire il maggior numero di anni di cui lo si godrebbe.
Tuttavia, il governo dovrebbe rispondere a tre quesiti fondamentali prima di procedere a qualsiasi nuova modifica del regime pensionistico: cambiare in continuazione crea incertezza e se è pur vero che i diritti acquisiti son diventati un mantra per giustificare qualsiasi privilegio, è altrettanto vero che non è pensabile che ad ogni legislatura il governo si inventi profonde modifiche e cambi di impostazione in un’area così delicata come quella della previdenza. Perciò, se si vuole legiferare di nuovo è bene capirne i vantaggi.
Domanda n.1: come si coprono i primi anni di cambio di regime? Poniamo che la signora Sempronia andando in pensione nel 2020 a 67 anni abbia diritto ad una pensione di 20000 € annui , mentre anticipando al 2016 si dovrà accontentare di 16.350 €. Se Sempronia camperà fino ad 85 anni (più o meno l’aspettativa di vita di una donna in Italia) incasserà (a valori costanti 2016) 359.700 € se sceglie di anticipare; se aspetta fino a 67 ne prenderà invece 360.000. Nel lungo periodo, insomma, per l’INPS non c’è differenza. Ma, come ammoniva un economista assai famoso, nel lungo periodo saremo tutti morti e le casse dello stato italiano hanno problemi immediati. Infatti, dal 2016 al 2020, l’INPS sopporterà un esborso supplementare di 65.400 € (sempre a valori costanti 2016) rispetto al previsto (16.350 per 4 anni): chi paga? Le pensioni medie in Italia sono di poco meno di 12.000 euro ma quelli che vanno in pensione a 63 anni ce le hanno più robuste, diciamo 15.000 €. È sempre difficile sapere in quanti approfitterebbero dell’opportunità, ma poniamo siano 200.000 in un anno: chi metterebbe i 3 miliardi necessari che in 4 anni a quel ritmo diventerebbero 12 (facendo grazia degli interessi sul maggiore debito pubblico)?
Seconda domanda: all’Italia conviene incoraggiare baby-pensionamenti? Il nostro paese ha due caratteristiche, vale a dire la percentuale più alta di PIL speso in pensioni di tutta Europa e di tutto il pianeta (dati Ocse ed Eurostat, dove si comparano pere con pere e mele con mele, quindi vecchiaia, anzianità, invalidità e reversibilità) e di converso le percentuale più bassa di partecipazione della popolazione alla forza lavoro. Il tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni, in Italia è del 55,7%, la media europea è del 65%. Abbiamo poco più di 22 milioni di occupati che sostengono altri 38 milioni di residenti. Insomma, il Belpaese deve incoraggiare il più possibile le persone a rimanere all’interno del mondo del lavoro e questo andrebbe fatto introducendo penalizzazioni sostanziose per chi anticipa il pensionamento (la signora Sempronia, per dire, dovrebbe accontentarsi di 15.000, non 16.350 € se decide di smettere nel 2016) e incentivando gli ultra sessantenni a non rimanere inattivi, togliendo i residui ostacoli al cumulo salari-pensioni, esentando, ad esempio, da nuovi contributi (e da nuove pretese) chi trova un’occupazione post-pensionamento. “Lavorare meno per lavorare tutti” ha provato di essere una bufala, sia che si pensi di ridurre l’orario di lavoro che di liberare posti x i giovani facendo ritirare i vecchi.
Terza questione: se ci si indirizza verso una maggiore libertà di scelta, è bene che si sia conseguenti. Il presidente dell’INPS, nella sua veste di studioso, elogiò il sistema svedese. Ebbene, tale sistema prevede tra l’altro, che il singolo lavoratore possa decidere di versare parte del suo stipendio a fondi privati in concorrenza tra loro, sebbene regolati e supervisionati da un’autorità pubblica. La possibilità di diversificare seriamente l’allocazione dei propri contributi previdenziali è possibile in paesi tra loro diversi come la Danimarca, la Gran Bretagna o soprattutto il Cile, con il suo funzionante sistema a capitalizzazione che nessun governo socialista ha mai pensato di cambiare. La caratteristica di tali paesi è di avere una struttura previdenziale sostenibile e conveniente per i pensionati: ovvio, la concorrenza è benefica, stimola l’innovazione e il duro lavoro.
In conclusione, la nonnina di 62 anni, ammesso che le vigorose sessantenni di oggi vogliano essere incasellate in tale definizione, potranno dedicarsi ai loro nipotini se il governo riuscirà ad essere convincente su tre fronti: sostenibilità, attività e , naturalmente, libertà.
Alessandro De Nicola
adenicola@adamsmith.it
Twitter @aledenicola


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