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Il Purgatorio della concorrenza, paradiso delle lobby

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di Alessandro De Nicola

Che le vie dell’Inferno siano lastricate da buone intenzioni è abbastanza noto e in Italia siamo molto attaccati ai detti popolari.
Antefatto: per la prima volta dopo tanti anni il parlamento sembra seriamente intenzionato ad approvare la Legge annuale sulla concorrenza, adempimento cui sarebbe tenuto dal 2009 ma che finora ha sempre disatteso. Su queste colonne Alessandro Penati ha già riassunto come il testo approntato dal governo in primavera sia stato indebolito e peggiorato dalle lobby e i loro rappresentanti in Parlamento con la classica tecnica del salame, una fettina alla volta.
Le uniche consolazioni per coloro i quali credono nei benefici della concorrenza (in teoria tutti parlano di merito, competitività, benefici per i consumatori: pochi fanno qualcosa di positivo) erano che, per quanto depotenziata, la legge sulla concorrenza qualcosina riuscirà a cambiare (per avvocati, elettricità e farmacie, ad esempio); inoltre si introduce finalmente il precedente e quindi ogni anno sarà possibile compiere un passetto in più.
Quel che nessuno si aspettava era che il ddl concorrenza fosse la buona occasione per introdurre misure il cui valore liberalizzatore è assai dubbio se non negativo.
Infatti, la Camera ha votato, senza che l’argomento fosse prima toccato nel ddl, una norma che abolisce la parity rate, vale a dire la clausola contrattuale che impegna gli alberghi che si pubblicizzano tramite piattaforme tipo Booking.com o Expedia (cosiddette OTA, online travel agencies) a non praticare al cliente prezzi più bassi rispetto a quelli esposti sul web. Il parlamento ha approvato in modo quasi unanime la nullità dell’obbligo con la motivazione che ci guadagnano tutti, gli ospiti, che pagano meno, e gli alberghi che in cambio dello sconto risparmiano la commissione per chi gestisce la piattaforma web.
La necessità di una misura così draconiana era stata già esclusa dall’Autorità Antitrust che, dopo un serrato confronto con Booking.com, aveva dichiarato sufficiente che gli hotel fossero liberi di differenziare i prezzi tra le diverse OTA, sui propri canali offline (per telefono, ad esempio) e nell’ambito dei programmi di fidelizzazione.
D’altronde nessuno obbliga un ostello o una pensione a stipulare un contratto con Expedia, quindi non si capisce la legittimità di un intervento volto ad interferire nella libera contrattazione tra le parti. Le OTA sono state i più grandi motori dello sviluppo della concorrenza nel settore della ricezione alberghiera e oggi quasi tutti, invece che rassegnarsi al fai-da-te o a pagare alte commissioni alle agenzie che offrono solo gli alberghi convenzionati, fanno shopping sul Trivago di turno. Il modello di business delle OTA riposa anche su questo: devono apparire affidabili al consumatore il quale prenotando tramite esse non corre il rischio di vedersi rifilare un prezzo più alto di quello che potrebbe spuntare. Peraltro, il loro crescente successo, sia tra i consumatori che tra gli hotel (soprattutto i piccoli, che ne beneficiano più delle grandi catene alberghiere), testimonia che il sistema funziona.
Se così non fosse, sorgerebbe immediatamente una Groupon che si offrirebbe di arruolare alberghi senza alcuna clausola parity rate, svuotando i concorrenti di tutti i loro clienti. Non accade? Strano vero? E così ci pensa il solito Leviatano, felice per una volta di favorire una lobby e fare pure la bella figura del difensore del consumatore, a imporre un ulteriore ukaze che non a caso solo la Francia (fulgido esempio di liberalismo) ha finora adottato.
Appena qualche giorno prima, per sovrappiù, la Camera aveva deliberato, con la solita unanimità, una norma che obbliga alla chiusura gli esercizi commerciali per almeno 6 delle 12 festività nazionali (Pasqua, pasquetta, Natale, Capodanno, Santo Stefano, 1° maggio, 25 aprile e così via passando per l’Epifania). Ma che senso una norma di questo genere se non quello di ingraziarsi la lobby dei commercianti? O si fa come la Germania che non fa aprire la domenica così tutti riposano, i piccoli non hanno la concorrenza dei grandi (o non devono industriarsi a reagire cooperando tra loro) e la Chiesa può celebrar messa, soluzione sbagliatissima ma almeno coerente, oppure queste 6 chiusure a cosa servono se non a far calare il fatturato e a creare qualche disagio? I consumatori in tutti i sondaggi continuano a essere favorevolissimi all’apertura senza limiti ( e ci mancherebbe) e Confimprese (associazione delle aziende di grande distribuzione con 450.000 addetti) ha calcolato che 6 giorni festivi rappresentano il 4% del loro fatturato e che nelle rilevazioni fatte il 25 aprile e l’1 maggio le vendite sono aumentate dell’10%. I piccoli negozi in crisi, che magari il lunedì mattina non vendono niente ma il primo novembre o il 2 giugno sarebbero contenti di approfittare dello struscio cittadino, perché devono essere obbligati a serrare i battenti?
Mistero. La flebile speranza è che, dovendo i due provvedimenti ancora passare al Senato, è possibile faccia capolino un barlume di buon senso. Altrimenti le leggi pro-concorrenza meglio farle passare di soppiatto: l’appuntamento annuale potrebbe solleticare quegli istinti corporativi e dirigistici della classe politica che sono notoriamente facili ad eccitarsi.

Alessandro De Nicola
adenicola@adamsmith.it
Twitter @aledenicola


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