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Privatizzazioni senza privati

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di Alessandro De Nicola

Mentre il governo si balocca col tesoretto, si allunga sull’Europa l’ombra cupa della crisi greca. Il governo ellenico, che sembra in preda ad una dionisiaca cupio dissolvi, slegata prima dalla logica e poi dalla realtà, potrebbe portare il suo paese sull’orlo del baratro e poi farlo cascare dentro. A quel punto, nonostante l’Europa abbia migliorato i suoi meccanismi istituzionali per affrontare le crisi finanziarie, sarebbe questione di tempo prima che i mercati cominciassero a bersagliare il prossimo anello debole. E, se negli ultimi tempi le istituzioni europee si sono rafforzate, non altrettanto si può dire dei debiti pubblici che hanno invece continuato a peggiorare. Naturalmente, il debito peggiore rimane quello italiano e, finché dura la bonaccia di tassi e spread bassi, sarebbe bene che il governo facesse del suo meglio per cominciare a ridurlo, per lo meno in proporzione al PIL.
Ecco perché le troppo a lungo rimandate privatizzazioni acquistano un’importanza non indifferente nei piani dell’esecutivo. Attenzione tuttavia: la vendita di beni ed aziende pubbliche non è finalizzata solo alla riduzione del debito, bensì anche, per utilizzare le parole contenute nel Documento di Economia e Finanza del 2015, per “promuovere la competitività del sistema produttivo e lo sviluppo del mercato dei capitali”.
Se partiamo dal primo punto, dobbiamo concludere che finora la campagna di privatizzazioni è stata un insuccesso. Sia le previsioni del governo Letta che di quello Renzi sono state disattese. In particolare il ministro Padoan aveva assicurato alla Commissione Europea che i proventi delle alienzioni sarebbero stati pari allo 0,7 del PIL sia nel 2014 che negli anni successivi. Ebbene, nel 2014 ci si è attestati sullo 0,3%, nel 2015 si prevede lo 0,4% , 0,5% nel 2016 e nel 2017 e 0,3 nel 2018. Le percentuali da zero virgola non ingannino. Se prendiamo in considerazione il quinquennio, stiamo parlando di 25 miliardi in meno.
Inoltre, benché sia con la Legge di stabilità del 2014 che con quella del 2015 siano state introdotte norme dirette a razionalizzare e ad incentivare la vendita delle società partecipate dagli enti locali, fin qui ci sono pochi segnali che stia accadendo qualcosa di significativo e l’annuncio più importante sinora è stato quello dell’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti nel capitale di A2A, la società energetica quotata la cui maggioranza è in mano ai comuni di Brescia e Milano.
Il che introduce l’ulteriore variabile della privatizzazione attraverso un passaggio di mano a CDP o ai fondi di investimento da essa controllati (ad esempio, la quota del Tesoro in STMicroelectronics passerà al Fondo Strategico Italiano, facendo probabilmente affluire nelle casse dello Stato circa 800 milioni di euro) causando formalmente l’uscita dal perimetro dello Stato di un’azienda, anche se in realtà il governo ne mantiene indirettamente il controllo. Se guardiamo agli immobili, poi, per ora sembra che i più assidui compratori delle caserme del Ministero della Difesa siano Regioni, Province e Comuni (DEF 2015, p.132)!
Orbene, se in via eccezionale è possibile che alcune imprese pubbliche passino un periodo di Purgatorio con CDP (che fortunatamente per ora si comporta in modo prudente) prima di essere immesse sul mercato, la sensazione è che il ricorso alla Cassa (e ai suoi figli) sia massiccio e confermi quel detto di Ennio Flaiano per il quale in Italia nulla è più stabile del provvisorio.
Questo modo di procedere ci introduce all’altro obiettivo delle privatizzazioni : “promuovere la competitività e lo sviluppo dei mercati dei capitali”. Appare evidente, infatti, che se l’ingresso di capitale privato si riduce ad essere una partita di giro, si perde uno dei benefici del ricambio degli assetti proprietari, ossia la diffusione della conoscenza. L’ingresso di nuovi soci di maggioranza fa sì che si creino sinergie, che i migliori processi e tecnologie dell’acquirente si trasmettano al compratore e viceversa, in altre parole che aumenti la produttività del sistema: per quanto bravi siano, Fondi e CDP questo non lo possono assicurare. Inoltre, se le privatizzazioni significano sviluppo dei mercati dei capitali, ciò si ottiene assai meno se programmaticamente le società che si aprono al pubblico devono rimanere in mano allo Stato. Ferrovie, STM, Poste, Enav, RaiWay, Fincantieri, SACE: tutte le future o più recenti vendite di partecipazioni da parte dello Stato non prevedono esplicitamente, nemmeno in un futuro lontano, la possibilità di un’uscita completa della mano pubblica e ben che vada si resta sul vago.
La conseguenza è di deprimere il valore di mercato dell’impresa e di creare un pericoloso intreccio di interessi tra Leviatano e azionisti di minoranza, pronti a combattere insieme per mantenere le eventuali posizioni monopolistiche delle società. I soci privati, infatti, non potendo contare né su capital gain derivanti da offerte di acquisto della società da parte di terzi (vedi il caso di RaiWay), né avendo prospettive di comandare, faranno di tutto per mantenere i dividendi alti e sfruttare le rendite di posizione.
Insomma, privatizzazioni sbocconcellate e senza una chiara prospettiva porteranno forse un po’ di denaro nelle esangui casse dello Stato, magari introdurranno la disciplina dei mercati finanziari sulla governance societaria, ma rischiano di essere l’ennesima occasione perduta del Belpaese.

Alessandro de Nicola
adenicola@adamsmith.it
Twitter @aledenicola


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